Non profit

Sindaco, non fare il “bitone”

Milano Albertini ha dichiarato guerra ai ragazzi che decorano i muri con lo spray. Uno di loro difende la categoria

di Carlotta Jesi

Graffittari, imbrattatori e zozzoni. Da quando il sindaco Albertini ha lanciato la sua campagna ?anti graffiti?, Milano è tutta un risuonare di epiteti e nomignoli dispregiativi. E sul bus, in ufficio, al mercato o all?università, ma anche sui giornali, improvvisamente, il tema del giorno sono diventati loro: i ragazzi che scrivono sui muri e sporcano la città. Ma chi sono veramente i writers che scrivono sui muri di Milano. Perché lo fanno? Cosa vogliono dire? Scoprirlo non è semplice. Ma dopo qualche giorno di ricerca, in redazione squilla il telefono e una vocina dice: «Ho saputo che vuoi parlare con un ?tagger?, se vuoi sono disponibile. Però non devi scrivere il mio nome, due settimane fa te l?avrei detto, ma ora che il sindaco ha messo una taglia su di noi…». Quello che dunque chiameremo Gino arriva con due amici dai pantaloni larghi e i capelli spettinati. «Siamo della stessa crew », dice, «anche se come puoi vedere io non sono per niente trasgressivo». È vero: jeans, maglione blu e neppure un po? di ?zeppa? sotto le scarpe. Spiega che la crew è il gruppo cui ogni writer appartiene. Entrarci non è facile spiega, «soprattutto se sei un bitone o, ancora peggio, un sucker ». Cioè? Gino spiega che ?bitone? è uno che proprio con la bomboletta e il cervello non ci sa fare. Un copione insomma, e se proprio non ha speranza, un ?sucker?. Un bambascione che sta lì a guardarti e, anche nell?abbigliamento, sbaglia: «È sempre troppo largo!». Ma tu come sei diventato writer? «Ho iniziato 5 anni fa, a Roma». Gino racconta che in bicicletta tornava a casa per una strada fatta altre volte, costeggiando muri disegnati che aveva visto altre volte. «Eppure quella sera, non so come, mi girai e lessi qualcosa in quei disegni. Capii che dietro c?era un nome». Allora Gino aveva 19 anni e dipingeva forme astratte su carta. «Il giorno dopo», dice sorridendo, «ho comprato una bomboletta e ho fatto il mio primo muro». E cosa hai disegnato? «Il mio nome, come faccio anche adesso». Spiega che il nome non è quello con cui è registrato all?anagrafe, ma uno che si è scelto, che rappresenta quello che ha dentro: «Non raggiungo il metro e sessanta, e non ho segni particolari. In pratica non sono uno che ti volti a guardarlo, però ho un sacco di idee e quando scrivo il mio nome in grande sul muro mi sento vivo. Sto proprio bene». Anche se il muro è di qualcun altro? Anche se invadi uno spazio non tuo? «Altro che. Io poi sono uno che ?non fa? i monumenti, le chiese, le cose belle. Perché una cosa ben fatta è quello a cui tendo, e quindi la rispetto». Ma tu fai quei bei disegni colorati che si vedono in giro o solo quelle scritte grige e nere? «La verità è che sono la stessa cosa. Quelli che sembrano disegni sono in realtà dei nomi che la gente non riesce a leggere. Dietro c?è tutto uno studio, delle influenze, guarda qui». Apre il suo book, uguale a quello che hanno tutti i veri artisti, e mostra come scriveva il suo nome qualche anno fa e come lo fa adesso. Le fotografie scorrono in ordine cronologico. «Se guardo i miei primi pezzi un po? mi vergogno. Invece gli ultimi mi danno una grande soddisfazione». Va bene, ma cosa pensi di quelli che fanno solo una firmetta? «Alcuni non sanno fare meglio, o non hanno tempo. Il fatto di usare molto il grigio metallizzato per una delle scrittine che alla gente non piacciono dipende dalla ?mescla?. Quel grigio cola meno degli altri, e se non hai tempo di imbiancare il muro per renderlo impermeabile è la cosa migliore». Imbiancare il muro? Ma le tag non le fate di nascosto, di notte? No. Il buio è legato ad altre cose, spiega Gino. Per esempio al fatto che di giorno si lavora: «Sapessi quanta gente che di giorno frequenti, poi di notte va in giro con le bombolette. Ci sono anche dei poliziotti». Ah, questa è una notizia. Cosa pensi di loro? «Che non hanno scelto la vita del writer, quella vera. Ma se sanno fare una tag, allora li rispetto». Com?è la vita di uno che scrive sui muri, cosa vogliono dire le tag? «È un modo di sentirsi, liberi. Per alcuni vuol dire solo andare contro la legge. Per me stare bene, esprimermi. I valori di fondo sono quelli dell?hip hop che ha diversi modi di manifestarsi. Ci sono gli MC (rapper), i Dj che stanno ai piatti, quelli che ballano per strada e poi noi: gli unici hard core ». E cioè? «Gli unici che rischiano veramente. Che di notte sono disposti a farsi sparare per fare un treno». ?Farsi un treno? per Gino è il massimo. Perché un treno viaggia e porta la tua firma in giro per il mondo: «Io e un mio pezzo siamo la stessa cosa, e una parte di te se ne va per le città e racconta che esisti, che ci sei». Secondo te allora è vero quello che si dice, che come i primitivi lasciavano l?impronta di una mano per marcare un territorio voi lasciate la vostra firma. «Sì. Come i primitivi ma anche come fa il mio cane. A volte di notte giriamo insieme. E proprio come fa lui, se vedo un muro con delle tag, non resisto e scrivo anch?io, per dire che lì ci sono stato». Insomma, lo fai per trovarti uno spazio espressivo, però limiti quello degli altri. «No, ognuno si può prendere lo spazio che vuole». E se Albertini vi desse dei muri dedicati, come chiedono i centri sociali? «Qualcuno non ci scriverebbe perché non avrebbe senso, altri lo farebbero ma continuerebbero a ?taggare? altrove, prendendolo in giro. Io li userei». Ma che rapporti ci sono tra writers? «Dipende, nella crew buoni. Un treno lo puoi fare solo con qualcuno del gruppo. Fossimo amici potresti vedere un muro, una hall of fame ; ma non ti chiamerei mai a fare un treno se non sei della crew. Non mi fiderei». Cos?è una hall of fame? «L?unico posto dove ci si sente sicuri, dove la crew scrive la sua storia. A volte è un muro per cui ci hanno dato il permesso, mai un muro richiesto su commissione». E delle multe proposte dal sindaco, cosa dice la crew? Ciò che preoccupa è la taglia. «Al sindaco direi che io prima di risolvere un problema cerco di capirlo. Dovrebbe venire tra di noi, o almeno chiedere al suo consigliere di Rifondazione, che era un writer e si firmava Atomo, e che ora parla con i centri sociali ma è cambiato. Albertini dice che tra noi gira droga, ma lo sa quanta coca si consuma durante le sfilate di moda? Io ho trovato un modo di esprimermi che mi dà soddisfazione. Non tornerei mai ai fogli di carta e ai pennelli. Oggi uso i tappi, uno diverso dall?altro. E poi ci esponiamo molto. I pezzi sono sempre firmati, e possono essere ammirati come criticati ?a gratis?. Cerco sempre di tenermi informato, poi vedo un tag di New York e scopro che là sono avanti di secoli». Normale, i writers non sono nati lì? «Sì, nei ghetti neri dove la gente urlava di rabbia». Una rabbia che forse a Milano non è così forte, ma che si è trasformata in creatività: per i writers, un segno di vitalità.


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